MARCO ANDREIS
La casa della mia anima è là, nella natura sconfinata, tra gli orizzonti di cielo e i racconti del vento, fra montagne, pascoli, valli ed acque scroscianti. Ascolto misteriosi silenzi che parlano al cuore, qui sono il vero io, qui è il mio essere profondo.
martedì 28 settembre 2010
DOLORE
Un fremito improvviso che percorre il corpo,
una mano invisibile che attanaglia il cuore,
che lo preme fino allo spasimo,
un peso che opprime,
e piano piano,
diventa insopportabile,
i muscoli sono fibre vibranti,
i nervi sono gomene al limite di rottura,
il cervello turbina.
Ma che cos’è?
Che cos’è questa cosa che non si può descrivere?
Che cos’è questa cosa che sembra voler uccidere?
Che cos’è questa cosa che affligge i giorni?
Che cos’è questo …..
Ecco!
Forse!
Forse è …..
Certo!
Certo!
E’ il dolore!
E’ il dolore dell’anima,
il dolore dell’io più profondo,
il dolore che nasce nei pensieri,
il dolore di ciò che non siamo,
il dolore della consapevolezza di essere soli.
E’ il dolore di ciascuno!
venerdì 25 giugno 2010
Siedo sul soglio
e il mio sguardo
si perde lontano.
Chiome fluenti
di faggi e di roveri
e coni slanciati
di larici e abeti.
Verde cupo
di aghi coriacei
e verde tenue
di foglie fresche.
Arbusti spinosi
di ginepri
e ciuffi sparsi
di erba secca.
Nuova vita che fiorisce
del rosa intenso
delle dafne
e del blu cupo
delle genzianelle.
E laggiù,
oltre le cime
degli alberi,
profili di montagne
sfumate.
Susseguirsi
di cime arrotondate
e dolci colli.
Verdi e grigi
che si perdono
nel cielo
della pianura lontana.
E il mio spirito,
liberato dagli affanni,
si lascia cullare
nel piacevole naufragio
nella natura.
e il mio sguardo
si perde lontano.
Chiome fluenti
di faggi e di roveri
e coni slanciati
di larici e abeti.
Verde cupo
di aghi coriacei
e verde tenue
di foglie fresche.
Arbusti spinosi
di ginepri
e ciuffi sparsi
di erba secca.
Nuova vita che fiorisce
del rosa intenso
delle dafne
e del blu cupo
delle genzianelle.
E laggiù,
oltre le cime
degli alberi,
profili di montagne
sfumate.
Susseguirsi
di cime arrotondate
e dolci colli.
Verdi e grigi
che si perdono
nel cielo
della pianura lontana.
E il mio spirito,
liberato dagli affanni,
si lascia cullare
nel piacevole naufragio
nella natura.
MONTAGNA D’INVERNO …… UNA “MAGIA”!
Questa volta la nevicata c’è stata per davvero!
Venti centimetri a Torino e, qui a Balme, ce ne sarà più di un metro!
Spettacolare di questi tempi; avevo quasi dimenticato l’effetto delle case e degli abeti imbiancati, con i rami più bassi carichi fino a toccare terra, e il pettirosso che svolazza qua e la vicino agli usci delle stalle a cercare qualche briciola caduta in mezzo alla neve.
I miei nonni mi raccontavano che, un tempo, durante l’inverno, il pettirosso veniva lasciato entrare nelle stalle, e addirittura gli si preparava un ricovero fatto con frasche di pino o di abete, che lui gradiva molto e dove vi trascorreva la stagione invernale al caldo e con il cibo assicurato.
Ve lo immaginate oggi un pettirosso che svolazza per tutto l’inverno nel nostro salotto buono, o nella cucina, con tutte le inevitabili conseguenze del caso?
E’ proprio vero che i tempi cambiano!
Però, nonostante tutti i bei discorsi degli ambientalisti, animalisti, Wilderness e New Age, sulla necessità di ritornare in sintonia con la natura, credo che invece ce ne stiamo allontanando con la nostra brava maschera di ipocrisia.
Mi sa che nevicherà ancora!
Quando sono partito da Torino, questa mattina, il cielo era in gran parte sereno ma adesso si è interamente coperto di nubi lattiginose, tipiche da neve; e anche la temperatura è un po’ scesa, il termometro segna un grado sotto zero, e poi nell’aria c’è quel qualche cosa di inspiegabile che si avverte sempre prima delle nevicate: l’ “odore di neve”.
Poco importa, il percorso da qui al rifugio non è lungo, un’ora e mezza andando con comodo, e poi la cucina del gestore mi ricompenserà anche di un viaggio sotto la neve.
Lascio la macchina subito dopo le ultime case, ci sono già un bel po’ di altre auto parcheggiate, credo che stia salendo un certo numero di persone; d’altra parte, il Pian della Mussa in veste invernale merita di essere visto, e poi la pista da sci di fondo regolarmente battuta da Balme fino al Rifugio Città di Ciriè è senz’altro una bella attrattiva.
Io non so sciare, perciò mi farò una bella “ciaspolata”, prima salendo sul versante nord, opposto a quello della pista di fondo, e poi tagliando il piano in diagonale fino al rifugio.
Cammino fino all’antico ponte in pietra gettato ad arco sulla Stura, poi calzo le racchette da neve e comincio la salita verso i casolari di Bogone; inizialmente il passaggio è stretto e un po’ ripido ma poco dopo il ponte intercetto una larga traccia che arriva da Balme: è la pista battuta dalla motoslitta del gestore del Rifugio Ciriè che mi agevolerà la salita.
Alle case di Bogone mi fermo un attimo, ho già il fiatone, eppure ho fatto solo duecento metri di dislivello, si vede proprio che passo le mie giornate dietro una scrivania; alle prime uscite è sempre così: mi manca l’allenamento.
Come avevo previsto ecco i primi radi fiocchi bianchi scendere volteggiando dal cielo grigio, c’è un po’ di vento che li fa turbinare prima di lasciarli a terra; non credo ci sarà una nevicata tradizionale, sarà più qualche cosa che assomiglierà ad una tormenta.
Pochi passi ancora e la nevicata comincia sul serio, tutto attorno a me è calata la nebbia, fiocchi ora grandi, ora sottili come aghi, mi sferzano la faccia sotto l’impeto del vento che è decisamente rinforzato; per fortuna la traccia della motoslitta rimane ben visibile e posso procedere un po’ più speditamente, anche perché il freddo della tormenta comincia a farsi sentire nonostante lo sforzo della camminata in salita.
In un punto un po’ più esposto, una raffica particolarmente forte mi investe: non me l’aspettavo e mi fa barcollare; ho scelto proprio la giornata giusta, speriamo che non peggiori!
Come non detto!
Adesso la neve cade fittissima, in pochi minuti cancella le tracce che io stesso ho lasciato, vedo solo qualche metro attorno a me, tutto il resto è un turbinio bianco, il sibilo del vento copre lo scricchiolio ovattato dei miei passi, un bianco abbacinante sfuma i bordi della pista e i fusti imponenti dei larici, spogli nel loro aspetto invernale, sembrano scheletri ammantati da laceri drappeggi di neve.
Sto pensando se sia il caso di continuare o ripiegare e tornare a Balme, rintanarmi in un bar a riscaldarmi e godermi lo spettacolo della nevicata dalla finestra; certo il Pian della Mussa con queste condizioni non l’ho mai visto, e poi, finita questa salita, il percorso è facile e ben segnato: ma certo, ormai sono qua, perché non proseguire?
Mentre penso queste cose sono arrivato a una baita isolata sopra Bogone, il fiatone si fa di nuovo sentire, per un momento non ci avevo fatto caso, preso com’ero a godermi la bellezza selvaggia della nevicata intorno a me; adesso però la fatica mi costringe a fermarmi.
Strano, avverto una sensazione diversa dal solito, quasi una sorta di capogiro, una specie di vertigine forse provocata da tutto questo bianco che mi circonda e nel quale è difficile trovare punti di riferimento; sembra di essere trasportati in una bolla di sapone in mezzo ad un mare di schiuma.
Mi riparo per un momento sotto il balconcino della baita e mi appoggio allo stipite della porta: che strana sensazione, sembra che la realtà mi sfugga, la mente è serena ma vuota, per un istante mi sembra di non riuscire a realizzare nulla.
Dopo un attimo tutto torna normale; forse si è trattato dello sforzo, eppure la salita è dolce, strano, strano davvero!
Mentre sto ancora appoggiato alla porta della piccola baita, poco lontano, sulla pista, emergono alcune figure maschili che salgono verso il Piano; parlano fra di loro nel dialetto di Balme, ma il sibilo della bufera mi impedisce di capire cosa dicono, mi sfilano davanti ma sembrano non accorgersi di me, accenno una voce di saluto ma la ignorano e scompaiono tra i fiocchi della nevicata.
Certo che oggi è una giornata strana!
La bufera di neve improvvisa, la curiosa sensazione che mi ha colto e costretto a fermarmi, queste persone che mi passano praticamente davanti e neanche si accorgono di me, e …… ma ……, ma ora che ci penso questi uomini erano vestiti di fustagno e velluto, con cappelli di feltro a tesa e mantelle di panno tipo quelle in dotazione ai soldati nell’ ottocento, e ai piedi non avevano sci o racchette moderne ma i vecchi “serchiou” fatti con assicelle di legno e corde di canapa!
E uno di loro si trascinava anche dietro una di quelle vecchie slitte per il trasporto della legna e del fieno di una volta!
Incredibile! Incredibile davvero!
Che si tratti di una qualche rappresentazione storica organizzata dal Museo delle Guide di Balme?
Ma con questo tempo perché non l’hanno rimandata o fatta in paese?
Chi mai pensano che possa assistervi quassù?
Mah, magari è qualche cosa che si svolge su al rifugio, ormai era organizzato e sono partiti ugualmente nonostante il maltempo; vedrò una volta arrivato.
Tiro fuori il termos e bevo una tazza del the caldo che mi sono portato, mi rinfranca e riparto senza fatica, ormai sono in prossimità dell’imbocco del Piano della Mussa, passo sotto i casolari delle Ciavanette e, addossandomi alla pista da fondo che segue la strada asfaltata, punto in direzione del vecchio Hotel Broggi, ora casa di vacanze estiva gestita da non so quale Parrocchia.
La nevicata è quasi cessata e si vede un rapido diradamento delle nuvole basse, però la temperatura è scesa repentinamente, il mio termometro segna sette gradi sotto zero.
Costeggio il lariceto recintato, di proprietà dell’Acquedotto Municipale di Torino; i larici, molto vicini fra di loro, spogli nella loro veste invernale, intrecciano orizzontalmente i rami in modo curioso: sembrano un quadro astratto!
Mi fanno venire in mente tanti esili pettini doppi, messi in verticale, con i denti che si intersecano; è un’immagine curiosa, vale la pena di tentare di fissarla sulla pellicola fotografica, la chiamerò “parallelismi incrociati”, è un non senso, lo so, ma a guardare sembra proprio così.
La nevicata è cessata del tutto e le nuvole si sono alzate e …… che spettacolo!
Il vento ed il gelo sembrano aver ricamato di pizzo bianco tutti gli alberi del piano, sia gli abeti ed i larici dei pendii che lo racchiudono sia i bassi ontani sparsi lungo il letto della Stura; gli occhi non si appagano di un simile spettacolo, è una di quelle volte in cui ciò che vedi è talmente bello che vorresti poter raccogliere tutto quello che ti circonda e portartelo a casa per goderne più a lungo!
Questo però non si può fare e allora metto in funzione la macchina fotografica, e poi, come mi disse un giorno un carissimo amico guardando un tramonto verso il Monviso, ci sono spettacoli che non si dimenticano; questo è senz’altro uno di quelli!
Scorazzo un po’ qua e la nella neve farinosa appena caduta e poi punto decisamente verso il rifugio; la fame comincia a farsi sentire, il camino fuma e anche l’ora è ormai quella giusta.
Salendo verso il rifugio non posso però fare a meno di fermarmi, di tanto in tanto, per guardarmi intorno: mai pago dello spettacolo del Pian della Mussa in abito bianco.
La coltre nevosa asseconda le lievi ondulazioni del terreno quasi a creare delle minuscole dune che proiettano ombre appena percettibili l’una sull’altra, fino a perdersi là dove il piano incontra le pietraie che scendono dai fianchi della conca che lo racchiude; una miscellanea di grigi e di bianchi dove alpeggi ora muti si confondono con rocce spoglie ed abeti ammantati dal candore invernale, in un freddo panneggio che tutto attenua ed ovatta.
Sottilissime linee, come cicatrici che non hanno mai dato sangue, solcano questo candore, si allungano in tutte le direzioni, si intersecano, sembrano sparire dentro un avvallamento del terreno per riprendere un poco più in là, vanno su su fino ai piedi delle rocce verticali sottostanti il Pian dei Morti; sono le tracce lasciate dagli sci di fondo, tracce recenti che la nevicata di questa mattina non ha fatto in tempo a cancellare.
Salgo i due tornanti della pista che mette al rifugio; la neve qui è stata compattata dai ripetuti passaggi della motoslitta e le racchette praticamente non servono, se non fosse che i piccoli ramponi di cui sono dotate si rivelano provvidenziali per consentirmi di evitare antipatici ruzzoloni a causa del fondo ghiacciato!
Sul piazzale del rifugio il grosso cane bianco del gestore, dopo avermi squadrato con occhio attento, mi viene incontro festoso: beato lui, l’ho sempre visto allegro e scodinzolante, fa le feste a tutti; sembra incarnare alla perfezione lo spirito della gente di montagna: magari diffidente li per li, ma poi, capito che non c’è pericolo, estremamente cordiale.
Tolgo le racchette, le scuoto per far cadere la neve che si è attaccata, le appoggio nella bussola d’ingresso ed entro nel rifugio.
Il gestore, che ormai un po’ mi conosce per avermi visto diverse volte, mi saluta da dietro il bancone del bar e poi, asciugandosi le mani in uno strofinaccio, mi accompagna in sala da pranzo e mi fa accomodare vicino ad una delle finestre; guardano tutte in direzione dell’Alpe Rocca Venoni e delle bastionate rocciose del Pian dei Morti.
- E’ da questa mattina che sono li - mi dice indicandomi alcuni punti scuri sulle colate di ghiaccio opalino che le riveste – sono due cordate che stanno salendo sulle cascate di ghiaccio, ma mi sembrano un po’ lenti, o qualcuno ha delle difficoltà o non sono molto in forma! Comunque li tengo d’occhio, sai com’è non si sa mai!
Chiedo cosa c’è da mangiare e poi scelgo un piatto di polenta con il cervo; per il dolce della casa ci penserò dopo.
Il passaggio dal freddo di fuori al tepore del rifugio, come sempre mi succede, insinua in me uno stato di torpore, i muscoli riassaporano la distensione di un ambiente caldo ed accogliente; tolgo gli indumenti sudati, li metto vicino alla grande stufa, indosso un pile asciutto e mi risiedo al mio posto allungando le gambe sotto il tavolo (tanto davanti a me per il momento non siede nessuno). Chiudo un attimo gli occhi e lascio che la mia mente “senta l’ambiente”: il profumo del fuoco, lo scoppiettio dei ciocchi di larice, il calore che avvolge, il brusio delle persone presenti, i passi sul pavimento di assi, il profumo della polenta …… - Ecco la polenta con il cervo – una dolce voce femminile ha interrotto il mio stato di profonda quiete, è la giovane moglie del gestore, una ragazza biondina e minuta di una gentilezza straordinaria.
Certo che se l’è scelta davvero giovane e carina, e dire che lui non è più proprio un ragazzo, ma per quel che lo conosco, posso dire che è un uomo buono e cordiale; hanno anche una bambina di pochi mesi che hanno già trasportato fin quassù ben protetta, in braccio alla mamma, sulla motoslitta; sono una coppia intraprendente che mi suscita simpatia.
A proposito!
E gli uomini in costumi d’altri tempi che ho visto stamattina?
Nel rifugio non ci sono; dove saranno finiti?
Il gestore mi passa vicino e ne approfitto per chiedergli informazioni: - Non ne so nulla; nessuno mi ha detto niente giù in paese. E poi cosa vuoi che facciano con questo tempo? Tra l’altro si sta nuovamente abbassando la nebbia e cominciano a scendere i primi fiocchi; anche le due cordate di aspiranti ghiacciatori si stanno ritirando!
Sono tentato di replicare; stamattina non ho mica sognato!
Mentre sto per farlo, la porta del rifugio si spalanca ed entrano due ragazzi che conosco; oddio, tanto ragazzi non lo sono più neanche loro, entrambi si annoverano negli “anta” come me!
Si intrattengono un attimo con il gestore poi entrano nella sala e, appena mi vedono vengono a sedersi al mio tavolo; ci conosciamo bene, sono due musicanti del Gruppo Francoprovenzale dei Barmenk, uno è di Balme l’altro no.
Quello di balme (una vera sagoma) si è portato appresso un organetto in miniatura che si è fatto fare su misura e che usa nei concerti, l’altro si fa dare dal gestore una vecchia chitarra e cominciano a rallegrarci con musiche del loro ricco repertorio: prima una “curenda” (una sorta di tarantella tipica delle valli francoprovenzale ed occitane), poi alcuni valzer arrangiati, poi quello che loro chiamano “il ballo degli incutiti” (il ballo degli imbranati, nel senso che tutti sono capaci di farlo), ed infine i canti goliardici …… “ a iera na bergera darera an mürajun! e chila a-s-la gratava cun na grösa testa ad mun! “ (onde evitare censure non riporto la traduzione in italiano, a buon intenditor ……)!
Intanto ho finito la mia polenta, ho lucidato il piatto di un superbo tiramisù della casa e mi sono fatto portate un buon caffè corretto grappa (sempre fatta in casa)!
Visto il clima festoso che si è creato (una coppia si è addirittura lanciata in un tentativo di ballo francoprovenzale) il gestore ha pensato di portare anche una caraffa di vin brülè per scaldare meglio l’atmosfera (come se non bastasse la stufa quasi incandescente) e così, tra una suonata, quattro chiacchiere e un paio di buoni bicchieri di vino e spezie, passa il pomeriggio e quando guardo l’ora mi accorgo che si sono fatte le quattro.
Fuori cade di nuovo un nevischio gelato e il cielo comincia ad imbrunire quando saluto l’allegra combriccola e, racchette ai piedi, mi avvio nella discesa verso Balme.
Procedo spedito, la mangiata ed il vin brülè, non mi fanno ancora sentire il freddo; in poco meno di mezz’ora ho quasi percorso i due chilometri del piano e sono di nuovo vicino al lariceto dell’Acquedotto Municipale di Torino, quando un rumore secco, un “tlak”, proveniente dalla mia racchetta sinistra mi costringe a fermarmi.
Niente di grave, l’attacco automatico, chissà come, si è allentato sganciando lo scarpone; non dovrebbe succedere, in teoria, questo tipo di attacco è fatto apposta; mah, si vede che oggi è il giorno delle cose strane!
Però!
Ma cosa mi sta di nuovo succedendo?
Mi sono chinato per riallacciare l’attacco ed adesso che mi sono rialzato avverto nuovamente la sensazione che ho avuto stamattina sopra Bogone!
Ancora quella specie di capogiro, ancora la sensazione di stare in una bolla di sapone!
Mi siedo sul muretto che delimita il lariceto, mi passo le mani sul volto e sugli occhi, va decisamente meglio, è tutto passato, …… ma, …… ma, …… e quelle persone?
Da dove sbucano se un attimo fa non c’erano?
Nel piano davanti a me, un po’ oltre la pista, ci sono di nuovo quelle figure maschili di questa mattina, e non sono soli, sembra ci siano delle donne, anch’esse vestite con gli abiti lunghi che si portavano un tempo, e per di più sembra che, a coppie, stiano pattinando sulla coltre di neve fresca!
Impossibile!
Ma no, non stanno pattinando, …… ballano!!!
Ballano una danza che non ho mai visto, un po’ simile alle danze francoprovenzali; si confondono, figure eteree, in mezzo ai fiocchi della nevicata, le donne non le distinguo bene, ma adesso neanche gli uomini riesco più a distinguere bene, e poi, come possono muoversi con tale leggiadria su una spessa coltre di neve fresca?
E poi come fanno a non affondare?
E poi ……, e poi……, ma come si spiega che non sembrano lasciare tracce?
Credo di stare male!
Devo avere delle allucinazioni!
Mi sfrego ancora gli occhi, prendo un pò di neve e me la passo sulla faccia, ma i ballerini sono sempre la davanti a me che volteggiano in mezzo al piano!
Guardo indietro in direzione del rifugio in cerca di qualcuno che stia scendendo ma non riesco a scorgere nessuno: probabilmente sono ancora presi nella baldoria.
Una specie di inquietudine si impossessa di me, il cuore mi sale in gola, forse ho paura di trovarmi in una situazione che non conosco; magari sto davvero male!
Non guardo più verso il piano ed i suoi ballerini vestiti come una volta, non riesco più a pensare a nulla se non a ritornare verso Balme al più presto; se queste sono avvisaglie di un malore prima sono giù e meglio è!
Cammino più rapidamente che posso, quasi come se stessi scappando da qualcosa, supero i casolari delle Ciavanette e scendo velocemente passando accanto alle case di Bogone, fino al ponte in pietra sulla Stura e , finalmente, sono sulla strada a pochi metri dalle automobili parcheggiate e dalle case di Balme.
Mi fermo, guardo l’ora, sono le cinque, un’ora esatta dal rifugio a qui; respiro lungo, cerco di calmarmi, di razionalizzare.
Forse è stato un brutto scherzo della digestione e del vin brülè, tutto sommato adesso mi sento perfettamente bene, mi viene da ridere ripensando all’accaduto, chissà, avrò avuto le traveggole!
Eppure!
Eppure i ballerini li ho guardati e riguardati, non posso convincermi di non averli visti!
Dovrò raccontarlo, parlarne con qualcuno, si, ma con chi?
Intanto che ci penso mi tolgo le racchette e le poso in macchina insieme allo zaino, mi siedo, metto in moto e vado a parcheggiare davanti al primo bar che incontro entrando in paese; ho bisogno di qualche cosa di caldo, magari un buon the mi rinfrancherà.
Entro nel bar, è un bel locale, si respira ancora l’aria di un po’ di anni fa, il bancone in legno, il vecchio orologio a pendolo, lo specchio dietro il bar, i tavoli in legno con le sedie come quelle che aveva mia nonna.
Non ci sono avventori, mi siedo e chiedo se posso avere un the; dopo poco una signora anziana, che ha l’aria di essere la proprietaria, me lo porta, mi guarda, poi mi guarda ancora (devo avere una faccia strana), poi va a sedersi ad un tavolo un po’ in disparte dove c’è già una bambina che intuisco essere sua nipote.
- Nonna, sono stufa di giocare con la Play, mi racconti una delle storie che sai tu?
- Quale?
- Una che vuoi tu, una delle cose che succedevano una volta.
- Va bene, allora ascolta:
“Qui a Balme, c’era una famiglia soprannominata dei “Tuni”.
Tuni, era il soprannome, perché il vero nome di famiglia era Castagneri Tuni; si trattava della famiglia della famosa guida Toni dij Tuni, del quale mio nonno era fratello.
Tutti gli uomini della famiglia erano alti di statura, e decisamente dei begli uomini!
Durante l’estate, tutta la famiglia si trasferiva al Pian della Mussa, nell’ alpeggio situato dove oggi è stata creata l’area dell’acquedotto; questo alpeggio è poi stato venduto all’acquedotto di Torino, dai Castagneri Tuni, per ricavare il denaro necessario per potersi costruire case migliori a Balme.
Il trasferimento estivo alla Mussa, oltre che per far pascolare il bestiame, serviva anche per tagliare il fieno da immagazzinare per la brutta stagione, che veniva raccolto e lasciato nei fienili dell’alpeggio, per poi andarlo a prendere durante l’inverno con le slitte.
Tutto andò bene fino al momento in cui, le mogli, che rimanevano a Balme mentre gli uomini dei Tuni salivano al Pian della Mussa per recuperare il fieno, incominciarono a notare che, questi, salivano presto ma rientravano sempre troppo tardi la sera!
Le donne si interrogavano sul motivo del ritardo, ma non riuscivano a trovare una spiegazione: “Ma cosa diavolo capiterà lassù a questi uomini? Anche a voler pensare male, di donne lassù d’inverno, certo non ne incontrano! Vino da bere non se portano! Cosa faranno i nostri uomini?”.
Così, sempre più incuriosite, un bel giorno, decisero di seguirli di nascosto.
Con la neve alta e la sola traccia delle slitte, le povere donne, con i loro miseri zoccoli in legno (certo inadatti alla salita), tra capitomboli e scivoloni, tribolarono non poco!
Ma una sorpresa inimmaginata le attendeva al Pian della Mussa!
Superato l’ultimo tratto di salita ed affacciatesi sul piano, poco prima degli alpeggi, che cosa videro?
Tutti gli uomini dei Tuni che volteggiavano, danzando, nientemeno che con le masche!!!!!
Questi uomini, erano talmente belli che le masche, che si ritrovavano per i loro balli nel piano, se ne erano perdutamente innamorate e, per questo, li avevano coinvolti con loro nelle danze.
A questo punto, le donne, superato il primo momento di sgomento e riacquistata la calma necessaria per riflettere, decisero che la cosa più opportuna era non fare proprio nulla e se ne tornarono a Balme dicendo tra loro: “Teniamoci dacconto i nostri uomini!”.
Da questo episodio è nata la storia de “li béli om d’la Müsa dij Tuni”, cioè “i begli uomini della Mussa dei Tuni”.
Anche se non avessi voluto, non avrei potuto non ascoltare il racconto!
Sono letteralmente sbigottito!
Non so più cosa pensare!
Quello che ho visto e il racconto hanno delle assonanze tali da non poter essere casuali; finisco di bere il mio the (ormai praticamente freddo), pago ed esco ormai nel buio della sera incombente, salgo in macchina e mi avvio verso valle, torno a Torino.
Sono letteralmente esterefatto!
La giornata è stata splendida, una bella escursione invernale in montagna, ambienti di incomparabile bellezza e suggestione, affascinante camminata in mezzo alla nevicata, bei momenti trascorsi nel tepore del rifugio in allegria, già …… e poi …… ho anche visto le “masche” (streghe, per chi non lo sapesse)!
Che cosa voglio di più?
Mentre percorro la Valle, tra piccoli pittoreschi paesi immersi nel freddo silenzio dell’inverno, non posso fare a meno di pensare a quello che mi è successo; eppure quella storia io non la conoscevo e non posso neanche accampare la scusa di essermi fatto suggestionare, chissà perché ho visto quello che ho visto?
Non lo saprò mai!
Adesso che ci penso, però, un giorno, chiacchierando con un amico di un mio collega di lavoro, lui, appassionato ricercatore di “cose strane”, mi ha parlato della “memoria dei luoghi”; secondo la sua opinione, i luoghi, conservano memoria delle cose che vi sono accadute e, con alcuni accorgimenti, che peraltro non conosco, è possibile percepirle.
Magari la storia che la proprietaria del bar ha raccontato alla nipotina non era tutta fantasia, magari quella parte del Pian della Mussa era luogo di incontro per qualche rituale, d’altra parte a Bogone esiste un altare druidico in pietra ben conservato e da anni oggetto di studi storici seri, magari ho davvero percepito un frammento di “memoria del luogo”, anche senza volerlo!
Magari è così, magari, se mi capiterà di reincontrare l’amico del mio collega, gliene parlerò.
Magari ……
Magari è stata la magia della montagna d’inverno!
NOTA:
Quanto contenuto nel racconto corrisponde, nelle sue linee fondamentali, al vero.
I personaggi che ho menzionato sono reali, o comunque ispirati a personaggi reali, non me ne vogliano se sono troppo riconoscibili; mi piace che si sappia che per ciascuno di loro nutro profondo rispetto, simpatia e stima.
E’ vero che sono salito da Balme al Pian della Mussa in una giornata d’inverno sotto una tormenta di neve.
Sono veri i luoghi.
Sono veri i paesaggi e le immagini che ho descritto così come le suggestioni che hanno suscitato in me.
E’ vero che esiste un gruppo musicale “LI BARMENK”, di Balme, dediti alla divulgazione della musica e delle danze tradizionali francoprovenzali.
E’ vero che la storia dei “Begli uomini della Mussa dei Tuni” mi è stata raccontata, da una gentile signora, in un bar di Balme.
E’ vero che credo esista una qualche forma di “memoria dei luoghi”.
Devo però dire che non mi è mai capitato di vedere le “masche” ballare al Pian della Mussa!
venerdì 30 aprile 2010
UN SENTIERO NEL BOSCO
Un sentiero nel bosco.
Un bosco di montagna ad inizio autunno, ancora verde ma con segni incipienti di fiamme di colore che, tra pochi giorni incendieranno i faggi di mille colori, che porta però ancora i segni del passato inverno; rami secchi spezzati ed alberi antichi che paiono scheletriche, inquietanti sagome, con i loro rami,spogli, protesi quali mani giganti nel cielo.
Faggi maestosi che affondano le loro radici contorte nel terreno, talvolta abbarbicati a rocce, come a cercare un solido appiglio contro la forza del vento, alberi possenti che mai potranno essere sradicati, se non quando, compiuto il loro tempo, tra centinaia di anni, forniranno umus per il bosco e per nuova vita.
Ma ecco che lo sguardo è rapito da mille punti verdi che, come stelle, costellano questo mondo il cui silenzio è rotto solo dal cinguettio degli uccelli e dallo scosciare lontano delle acque di fondovalle.
Le case: vecchi muri di pietre saldate da povera malta di terra rossa o murati a secco, legni segnati dal tempo a sostenere pesanti tetti di lose, e poi le aperture, orbite ormai vuote che sembrano gridare il dolore dell’abbandono.
Un sentiero nel bosco.
Un sentiero bello, largo, protetto ai lati da muretti a secco, a tratti lastricato dalla fatica quotidiana di solidi montanari, mai troppo ripido, comodo, adatto ad essere percorso con carichi di legna e di fieno portati a spalle.
Il “Sentiero dei Franchi”, così lo chiamano, in questo tratto percorre a mezza costa il selvaggio Vallone del Gravio per poi arrivare alla Certosa di Monte Benedetto e alla Sacra di San Michele; i Franchi, nel lontano 773, guidati da Carlo Magno, lo percorsero per portarsi a combattere i Longobardi di Desiderio attestati a valle, alle Chiuse, di Fronte alla Sacra di San Michele, là dove la Valle di Susa si stringe prima di sfociare nella pianura.
Cerco di vederli, uomini armati che percorrono questo sentiero, cercando di non fare troppo rumore, per non svelare la loro posizione e sorprendere il nemico; poveri montanari impauriti dal passaggio di un esercito che sempre porta con se violenze, soprusi, stupri, dolore inflitto.
Poi cerco di vedere i montanari, povera gente vissuta con niente per secoli, gente fiera, vissuta “lunghi anni nella gloria dei ruvidi panni”, per cui la dignità consisteva nell’essenziale e nulla più, “addobbavan le scabre pareti, qua di lupo là d’orso una zampa, e la sera, raccolti alla vampa, crepitante di cerri e di faggi, sante istorie, vetusti coraggi, in austero, fantastico stil”.
Un sentiero nel bosco.
Un sentiero da percorrere in silenzio, meditando dentro se stessi l’armonia straordinaria della natura, ascoltando i suoni ed i profumi del bosco, lo scorrere dell’acqua di fusione in fondo al Gravio, osservando una roccia, un muschio, una corteccia, un lichene, ed alzando di tanto in tanto gli occhi verso lo scenario impagabile delle montagne spennellate di neve.
Un sentiero nel bosco!
Un bosco di montagna ad inizio autunno, ancora verde ma con segni incipienti di fiamme di colore che, tra pochi giorni incendieranno i faggi di mille colori, che porta però ancora i segni del passato inverno; rami secchi spezzati ed alberi antichi che paiono scheletriche, inquietanti sagome, con i loro rami,spogli, protesi quali mani giganti nel cielo.
Faggi maestosi che affondano le loro radici contorte nel terreno, talvolta abbarbicati a rocce, come a cercare un solido appiglio contro la forza del vento, alberi possenti che mai potranno essere sradicati, se non quando, compiuto il loro tempo, tra centinaia di anni, forniranno umus per il bosco e per nuova vita.
Ma ecco che lo sguardo è rapito da mille punti verdi che, come stelle, costellano questo mondo il cui silenzio è rotto solo dal cinguettio degli uccelli e dallo scosciare lontano delle acque di fondovalle.
Le case: vecchi muri di pietre saldate da povera malta di terra rossa o murati a secco, legni segnati dal tempo a sostenere pesanti tetti di lose, e poi le aperture, orbite ormai vuote che sembrano gridare il dolore dell’abbandono.
Un sentiero nel bosco.
Un sentiero bello, largo, protetto ai lati da muretti a secco, a tratti lastricato dalla fatica quotidiana di solidi montanari, mai troppo ripido, comodo, adatto ad essere percorso con carichi di legna e di fieno portati a spalle.
Il “Sentiero dei Franchi”, così lo chiamano, in questo tratto percorre a mezza costa il selvaggio Vallone del Gravio per poi arrivare alla Certosa di Monte Benedetto e alla Sacra di San Michele; i Franchi, nel lontano 773, guidati da Carlo Magno, lo percorsero per portarsi a combattere i Longobardi di Desiderio attestati a valle, alle Chiuse, di Fronte alla Sacra di San Michele, là dove la Valle di Susa si stringe prima di sfociare nella pianura.
Cerco di vederli, uomini armati che percorrono questo sentiero, cercando di non fare troppo rumore, per non svelare la loro posizione e sorprendere il nemico; poveri montanari impauriti dal passaggio di un esercito che sempre porta con se violenze, soprusi, stupri, dolore inflitto.
Poi cerco di vedere i montanari, povera gente vissuta con niente per secoli, gente fiera, vissuta “lunghi anni nella gloria dei ruvidi panni”, per cui la dignità consisteva nell’essenziale e nulla più, “addobbavan le scabre pareti, qua di lupo là d’orso una zampa, e la sera, raccolti alla vampa, crepitante di cerri e di faggi, sante istorie, vetusti coraggi, in austero, fantastico stil”.
Un sentiero nel bosco.
Un sentiero da percorrere in silenzio, meditando dentro se stessi l’armonia straordinaria della natura, ascoltando i suoni ed i profumi del bosco, lo scorrere dell’acqua di fusione in fondo al Gravio, osservando una roccia, un muschio, una corteccia, un lichene, ed alzando di tanto in tanto gli occhi verso lo scenario impagabile delle montagne spennellate di neve.
Un sentiero nel bosco!
lunedì 26 aprile 2010
giovedì 22 aprile 2010
lunedì 19 aprile 2010
DIALOGO CON LA MONTAGNA
L’uomo sale lungo il sentiero nel bosco; sale adagio, osserva, ascolta, ogni tanto si ferma, immobile, si guarda intorno e poi riprende il cammino.
Poco alla volta, il bosco, prima misto, diventa un bosco di castagni, poi di faggi, poi di larici e di abeti, poi ancora gli alberi lasciano il posto ad ampi pascoli, prati disseminati di massi dove solo più qualche pino cembro resiste alle intemperie.
La pendenza del sentiero diminuisce, davanti all’uomo si allarga un pianoro, al cospetto della montagna: magri declivi erbosi, balze rocciose, forre, precipizi, cascate e laghetti incastonati come pietre preziose, sfasciumi, pietraie, e poi, più su, neve e ghiaccio e oltre, soltanto il cielo.
L’uomo fa qualche passo, si avvicina ad un masso, si siede, guarda lontano, respira profondamente, chiude un attimo gli occhi, rilassa le sue membra, svuota la mente ed ascolta.
Ascolta la voce del silenzio, quella voce che dà un senso di ronzio nelle orecchie.
Poi, pian piano, dalle balze rocciose, scende un sibilo leggero, quasi un alito di vento, che però vento non è.
E’ la voce della montagna.
- Buongiorno montagna!
- Buongiorno uomo; chi sei?
- Un uomo; un uomo come tanti altri, destinato ad un fugace passaggio in questo mondo, stanco di complicazioni, ingiustizie, fandonie, furberie, violenze; un uomo in cerca di un po’ di se stesso!
- Mi sembra una filosofia piuttosto triste la tua.
- Lo è; forse anche per questo sono qui, a godermi un po’ della mia vita.
- Stavo per chiedertelo; cosa fai seduto da solo quassù?
- Mi piace.
- Che cosa ti piace?
- Stare qui.
- E’ difficile parlare con te, sei di poche parole.
Lo so! Però in certe situazioni, in certi posti, le parole sono inutili. Bisogna lasciare parlare quello che ci circonda, ascoltare il silenzio e le cose che ha da dirci, ascoltare le voci che vengono dal profondo di noi stessi e che troppo spesso tacitiamo, ascoltare i suoni della natura, ascoltare le voci che sono nel vento; e poi lo sai, come ha detto Goethe: "I monti sono maestri muti e formano allievi taciturni"
- Mmm, addirittura le citazioni! Sembri saggio.
- No, non lo sono.
- Perché no?
- Perché sto quassù troppo poco e non mi riesce di ascoltare fino in fondo tutte le cose che ti ho detto. Quando ritorno alla vita di tutti i giorni tutto questo sparisce soffocato dalla frenesia e dai mille impegni che ognuno di noi si è costruito convinto che sia la cosa giusta da fare; d’altra parte la fanno tutti! L’unica cosa che ti resta è una grande nostalgia e la voglia di ritornare quassù!
- Vorresti stare quassù?
- Si.
- Ed allora fallo.
- Non posso.
- Perché?
- Perché non sono saggio.
- Ma tu credi che stare quassù sia facile? Credi che io renda la vita facile ha chi decide di vivere nei miei domini? Mi credi materna e comprensiva? Mi credi malleabile? Mi credi domabile?
- No.
- E allora perché lo faresti?
- Che cosa?
- Stare quassù.
- Te l’ho già detto: perché mi piace!
- Sei un uomo strano.
- Forse.
- Comunque stare quassù è dura!
- Si ma è altrettanto duro vivere in una città, una vita che non riconosci più come tua in un posto che non è più il tuo. Quando te ne accorgi spesso è troppo tardi per cambiare, o forse semplicemente non hai più il coraggio di farlo e allora fai l’unica cosa che può aiutarti: vieni quassù ogni volta che puoi e ti viene il pensiero, che piano piano diventa certezza, che, forse, se vivessi quassù le cose migliorerebbero sensibilmente.
- Come puoi paragonare lo stare qui con lo stare in una città, in mezzo alle comodità ed alla gente?
- Comodità? Gente? Certo: i negozi sono sotto casa, hai tutti i servizi, esci e ti mescoli in mezzo alla folla; però mi sono sentito più solo in mezzo a centinaia di persone, ognuna chiusa nel proprio guscio di indifferenza verso gli altri, che adesso quassù; queste sono le comodità a cui alludi? Sei certa che il gioco valga la candela?
- Però quassù quando nevica ed infuria la tormenta ti devi spalare la strada, quando fa freddo devi stare attento che non ti si spenga la stufa, quando d’inverno manca la corrente elettrica devi stare al lume di candela, se hai bisogno di qualche genere particolare non lo trovi nei negozi, e potrei proseguire a dirtene di disagi.
- Quando è nevicato sono rimasto impantanato in strade di città e non di montagna, perché in città non erano pronti con i mezzi spazzaneve mentre qui sono sempre preparati e poi se c’è la necessità fanno quello che devono senza badare troppo ai formalismi e alla burocrazia. Quando, prima o dopo le date stabilite dalla legge per l’accensione degli impianti di riscaldamento, ci sono state delle giornate di maltempo, ho patito il freddo nella casa di città mentre qui ho potuto accendere la stufa quando ho voluto. Quando è mancata la corrente elettrica in città non sono riuscito a comperare le candele, non ero preparato e non me l’aspettavo, qui le ho sempre in casa e comunque le trovo sempre nel negozietto del paese, perché so che capiterà di restare al buio. Forse hai ragione sui negozi.
- Ma tu di dove sei?
- Di un posto di montagna.
- Ecco! Ora capisco.
- Che cosa?
- Il tuo modo di pensare e le cose che mi dici. Un uomo nato e cresciuto in una città molto difficilmente mi avrebbe detto quello che mi hai detto tu. Loro salgono quassù d’estate, in combriccole chiassose a fare le loro merende, lasciano cartacce e rifiuti dappertutto, strappano i fiori per fare dei grossi mazzi che appassiscono prima che arrivino a casa, calpestano i pascoli, incidono scritte idiote sul tronco degli alberi, accendono fuochi senza precauzione e distruggono ettari di bosco. Quante volte ho sentito gli alberi urlare per il dolore mentre venivano arsi vivi per l’incoscienza di un uomo, o gli animali terrorizzati cercare scampo sui miei fianchi rocciosi dove il fuoco non arriva! Oppure salgono quelli che si chiamano alpinisti; alcuni, devo riconoscerlo, sono persone a modo, che mi sfidano ma che mi rispettano e mi vogliono bene sul serio, che sanno comportarsi bene con me; altri però improvvisano. Pensa che ho visto delle persone su un ripido nevaio con le scarpe da ginnastica di tela! Cose da farmi accapponare le rocce! Poi, purtroppo succedono le disgrazie! E allora è colpa mia che sono crudele ed infida; i giornali scrivono che bisogna fare attenzione a fidarsi di me, quasi mi facesse piacere vedere uomini che precipitano nei miei anfratti o scivolano sui miei ghiacciai e si sfracellano in fondo a qualche burrone! Io cerco di avvertirli, con dei segni, ma loro non sanno riconoscerli! Non sanno vedere la placca di roccia o di ghiaccio o neve infida, non sanno vedere il temporale che si addensa sui miei fianchi e che presto gli scaricherà addosso tempesta e fulmini mortali; insomma, spesso non so proprio come fare!
- Eh, certo che anche tu hai le tue ragioni.
- Mah, è pur vero che sono un po’ difficile da capire e da trattare, ma di certo non voglio fare del male a nessuno. Sono contenta anch’io quando vedo gli alpinisti arrivare in vetta e gioire e ritornare sani alle loro case per raccontare le loro avventure agli amici; oppure più semplicemente quando qualche allegra comitiva sale qui sui pianori a godersi un po’ di aria buona e di serenità, o attraversa i miei passi per visitare le mie vallate, o si ferma nei rifugi a pernottare: le loro luci mi fanno compagnia quando scende il buio. Mi ricordo, ormai sono molti anni, quando i primi alpinisti hanno cominciato a fare le loro salite accompagnati da persone dei paesi di quassù, che un po’ mi conoscevano perché mi percorrevano per portare il loro poco bestiame sui pascoli o per andare a caccia o anche per andare a scambiare o contrabbandare merci nelle varie vallate.
- Ho visto delle fotografie e ho letto dei resoconti di vecchie scalate; certo che allora i mezzi e le attrezzature erano proprio poche rispetto ad oggi! Per questo penso che quelli fossero veri alpinisti! Un conto è salire con pesanti scarponi di cuoio con sotto i chiodi, con vestiti di lana che si inzuppano di sudore o di pioggia e magari poi gelano, con corde di canapa che quando si bagnano diventano dure come legno, e un conto è salire con le moderne attrezzature, leggere, comode, calde ed asciutte, maneggevoli, con radio e telefoni portatili per chiedere aiuto in caso di necessità. Però, d’altra parte è meglio così, oggi si è più sicuri anche grazie a tutte queste cose di cui si può disporre.
- Si, sono d’accordo con te, anche se mi dava più soddisfazione vedere con quali sforzi e con quale indistruttibile volontà mi scalavano gli alpinisti dei secoli scorsi, o come si ingegnavano per inventarsi nuovi sistemi o nuovi attrezzi autocostruiti per trarsi d’impaccio quando li mettevo alle corde con qualche passaggio molto difficile.
- Come quando Whymper, nel 1862, costruì il primo rudimentale cliff-hanger, o il cappio con anello in ferro e cordino per recuperare la corda nelle calate?
- Si, esattamente; ma gli esempi potrebbero continuare numerosi.
- Lo so. Però, se dici così, mi autorizzi a pensare che non sei buona come mi hai detto poco fa. Ora che ci penso di vittime ne hai fatte parecchie!
- Dai, non esagerare, è stato il prezzo che l’uomo ha dovuto pagare per la sua sete di conquista; anche chi ha attraversato deserti o esplorato foreste, o risalito fiumi sconosciuti o navigato su mari ignoti, talvolta ha incontrato la nera signora.
- La nera signora. Mi piace questo eufemismo usato da te.
- Se avessi detto morte mi avresti accusata di poca sensibilità.
- Nera signora, morte, donna con la falce, o qualsiasi altro appellativo, non cambia la sostanza.
- Eppure anch’io sono rimasta turbata ed ho pianto per le grandi tragedie: quella della spedizione di Whymper sul Cervino, la drammatica fine di Toni Kurz sulla nord dell’Eiger, o la tragedia che ha travolto Corti e Longhi sempre sull’Eiger, la terribile agonia sul Monte bianco di Vincendon ed Henry, le indicibili sofferenze di Simpson sul Siula Grande nelle Ande Peruviane, la morte sull’Everest di Mallory e Irvine, di cui ancora voi uomini cercate la ragione ….. mah, è meglio non rivangare ricordi tristi. Se solo, a volte, voi uomini vi rendeste conto che non sempre il momento è quello giusto per fare certe cose. Se solo metteste da parte l’orgoglio e la sete di primeggiare sempre e comunque e vi rendeste conto che, si io sono buona, ma sono severa e con me non c’è spazio per leggerezze….. probabilmente tante disgrazie si potrebbero evitare!
- Tu sai come è andata a Mallory e Irvine!
- Certo; c’ero! Ma non ho voglia di parlarne, sarebbe un racconto troppo triste! Sull’Everest, più che in altri posti, non ci si possono permettere errori neanche minimi. Forse erano due alpinisti troppo diversi, con esperienze troppo diverse, non sufficientemente in sincronia per una sfida così grande; te l’ho detto che non sempre il momento è quello giusto.
- Dici bene tu, ma sai che l’uomo non è saggio. Mi hanno insegnato che ci vuole più coraggio a ritornare indietro quando ormai manca poco alla vetta che a raggiungerla a tutti i costi, ma ho fatto fatica a capirlo, solo dopo averci meditato per un po’ di tempo me ne sono convinto; però conosco tanta gente che, se mi sentisse, mi darebbe del codardo o quantomeno del buono a nulla.
- Ma tu sei un alpinista?
- Se per alpinista intendi uno che ti sfida, sempre e a tutti i costi, sulle pareti o sui ghiacciai, che va sempre in giro con chili di ferraglia appesi all’imbragatura e mazzi di corde arrotolati nello zaino, che dorme con la piccozza vicino al letto, che considera andare in montagna solo superare il settimo grado, allora no, non lo sono! Se invece per alpinista intendi uno che ti apprezza anche nelle tue forme meno ardite, che ama la tua natura, che ti rispetta e ha il giusto timore di te, che qualche volta desidera anche cimentarsi in qualche sfida con te, che possiede una piccozza ed un paio di ramponi, che si diverte ad arrampicare di tanto in tanto, che viene anche semplicemente a sedersi su una roccia come questa per stare un po’ da solo con te e magari fare due chiacchiere come stiamo facendo adesso, allora si, lo sono! Scegli tu.
- Cominci a piacermi, uomo.
- Grazie, tu mi piaci da molto tempo; ma queste cose preferirei che me le dicesse e che io le dicessi ad una bella donna.
- A proposito di donne, sai che mi è giunta voce che l’alpinismo e le donne non possono coesistere?
- Si, l’ho letto anch’io, ma sai cosa credo?
- Cosa?
- Che chi l’ha detto non abbia capito niente ne di donne, ne di alpinismo. Certo che si ti rintani in un rifugio o in un bivacco e trascorri una notte di sesso sfrenato e il giorno dopo pretendi di salire, vispo come un grillo, la parete nord delle Grandes Jorasses, o sei un mostro o sei un folle. Ma dato che i mostri non esistono, se non nella fantasia, sei di sicuro un folle. Ci sono stati grandi alpinisti con donne al loro fianco, prendi Cassin, sposato con figli, prendi Herman Buhl …..
- Ma sai che mi piaci sempre di più!
- Smettila di scherzare, ti ho già detto come la penso!
- Chiacchierando il tempo passa, il sole è già al punto più alto del suo percorso.
- A proposito, ti spiace se, mentre chiacchieriamo, sbocconcello qualcosa che mi sono portato nello zaino?
- Figurati, basta che poi non lasci in giro porcherie.
- Ma insomma, è da un bel po’ che parliamo e ancora dubiti del mio comportamento?
- C’è da fidarsi?
- Vedi tu! Comunque io penso che se ho fatto lo sforzo di portare i contenitori pieni in salita non capisco perché non possa portarli vuoti in discesa e debba sparpagliarli qua.
- Quando ti ho chiesto cosa facevi quassù, però, mi hai dato una risposta troppo vaga. Dimmi di più.
- Che cosa vuoi che ti dica? Ho cominciato a percorrerti da ragazzo perché eri l’unico posti in cui potevo placare la mia sete di avventura. Sai, ho iniziato come cacciatore di rocce.
- Cercavi minerali?
- Si. Poi però la semplice ricerca dell’avventura è diventata qualcosa di più profondo, qualcosa che mi ha legato strettamente al tuo mondo, qualcosa che mi ha fatto sognare le grandi scalate, che però non sono mai riuscito a fare. - Perché?
- Mah … forse mi è mancata la compagnia giusta, forse mi sono fatto distrarre troppo da altri impegni, o forse ne ho assunti di troppo gravosi perché mi lasciassero abbastanza tempo da dedicarti … Non lo so! Anche se credo che sia il primo dei motivi che ti ho detto.
- E poi?
- Poi cosa?
- Come è proseguita fino ad oggi?
- Poi, per un certo periodo ti ho tralasciata molto perché, come ti dicevo non essendo saggio, ho commesso l’irrimediabile errore di costruirmi un’esistenza che credevo adatta a me ma che mi ha portato ad uno stato di grande sofferenza interiore che mi ha fatto capire che stavo sbagliando tutto. Il modello che avevo preso ad esempio era completamente sbagliato! Non potevo stare senza di te, mi mancava la tua natura, i tuoi grandi spazi, i tuoi profondi silenzi; tutte cose che mi facevano, e mi fanno, stare bene. Da quel momento ho ripreso a frequentarti! Certo, quando posso; ma ogni volta è per me una specie di rinascita interiore, qualcosa che non so spiegare ma che mi porto dentro per un po’; poi devo ritornare quassù.
- Interessante! Forse stai scoprendo una dimensione spirituale diversa da quella della maggioranza; diversa dalla dimensione meramente poetica o romantica che alcuni trovano in me, diversa anche da quello spirito di ribellione contro le cose del mondo di oggi che porta tanti a venire quassù, diversa anche dalla ricerca del’eroismo fisico che ha animato ed anima tanti alpinisti!
- Non lo so! Sto ancora cercando di capirlo. Certamente la componente poetica e quella di ribellione, ci sono dentro di me, sono una spinta; forse, come ha detto Camanni, sono anch’io uno di quegli uomo-fanciullo mai diventato completamente adulto e sempre alla ricerca di attimi ed emozioni che non trova nella vita quotidiana. Come ti ho detto, sto cercando di andare un po’ più a fondo in me stesso per capire di più su questo mio atteggiamento nei tuoi confronti. Vedremo. Ci vuole tempo perché certe cose maturino ed emergano dal profondo della nostra coscienza.
- Forse cerchi l’ascesi interiore.
- Forse! Tu sei un mondo affascinante, attraente, terribile. Non è certo un caso che da sempre le culture abbiano collocato sulle tue vette Dei e Demoni. Hai sempre rappresentato l’irraggiungibile, la difficoltà; come difficoltoso è l’incontro con il divino o il soprannaturale.
- A proposito di difficoltà, siamo noi due che stiamo facendo dei discorsi difficili!
- Si! Ma ogni tanto è piacevole confrontarsi con qualcuno anche su queste cose, ma sono pochi gli uomini con cui è possibile farlo senza essere presi quantomeno per persone strane.
- Perché non capiscono!
- Lo so! Per fortuna qualcuno che ti capisce c’è, ma sono pochi!
- Ebbene continua uomo! Continua a venire quassù tutte le volte che vuoi. Continua a salire e cercare la montagna; ma non solo la montagna di rocce e neve, bensì quella che è dentro di te. Solo così potrai arrivare a quello stato di risveglio, ma soprattutto di illuminazione interiore, che solo qui puoi scoprire. Io ti chiedo continuità, fatica, silenzio, solitudine, rischio, fedeltà senza limiti e in cambio ti posso dare la serenità che viene dalla scoperta della montagna interiore e della rivelazione più profonda di te stesso, fino a superare ogni vetta materiale e raggiungere un ordine superiore.
- Queste parole mi fanno piacere; mi hai capito! Hai capito quello che sento dentro e che non so ancora spiegare, ma che forse hai spiegato tu, qui, ora! Credo che continuerò come dici tu, continuerò a salire perché, come ha detto Gregorio di Nissa “chi sale non si fermerà mai, andando di inizio in inizio, per inizi che mai hanno fine” ed un monaco, di cui non so il nome ha scritto che “le montagne non sono l’Assoluto, ma lo suggeriscono”.
- Bene! Basta con i discorsi troppo impegnati. Il sole sta calando, dovrai rientrare.
- Si, devo. A presto. Ho parlato volentieri con te.
- Sai dove trovarmi ogni volta che vorrai, e anche se non parleremo sarà lo stesso, perché, come tu stesso mi hai detto, a volte parlare non serve; a volte il silenzio ci dice più di molte parole perché, soprattutto, ci consente di ascoltare noi stessi.
L’uomo si alza, si sente bene, si sente un po’ rinato, volge ancora lo sguardo tutto intorno e cerca ancora la voce della montagna.
Una curiosa, leggera nebbiolina sale lungo i canaloni, come spinta da un alito di vento, che però vento non è! La montagna sta ritornando a se stessa; forse, chissà, tornerà a parlargli; o forse si è trattato della sua immaginazione.
No.
Non era solo immaginazione; ma non lo racconterà; non è sicuro che verrebbe capito!
Adesso scende; lungo ampi pascoli, prati disseminati di massi dove solo qualche pino cembro resiste alle intemperie, poi nel bosco; scende adagio, osserva, ascolta, ogni tanto si ferma, immobile, si guarda intorno e poi riprende il cammino.
Poco alla volta, il bosco, prima di larici e abeti, diventa un bosco di faggi, poi di castagni, poi ancora un bosco misto, poi la pendenza del sentiero diminuisce, fino al piano.
L’uomo si sente diverso; ora sa che quello che sente dentro è vero, reale, ora sa che la montagna esiste dentro di se, nel più fondo della sua interiorità.
Lui deve solo ascoltarla!
Poco alla volta, il bosco, prima misto, diventa un bosco di castagni, poi di faggi, poi di larici e di abeti, poi ancora gli alberi lasciano il posto ad ampi pascoli, prati disseminati di massi dove solo più qualche pino cembro resiste alle intemperie.
La pendenza del sentiero diminuisce, davanti all’uomo si allarga un pianoro, al cospetto della montagna: magri declivi erbosi, balze rocciose, forre, precipizi, cascate e laghetti incastonati come pietre preziose, sfasciumi, pietraie, e poi, più su, neve e ghiaccio e oltre, soltanto il cielo.
L’uomo fa qualche passo, si avvicina ad un masso, si siede, guarda lontano, respira profondamente, chiude un attimo gli occhi, rilassa le sue membra, svuota la mente ed ascolta.
Ascolta la voce del silenzio, quella voce che dà un senso di ronzio nelle orecchie.
Poi, pian piano, dalle balze rocciose, scende un sibilo leggero, quasi un alito di vento, che però vento non è.
E’ la voce della montagna.
- Buongiorno montagna!
- Buongiorno uomo; chi sei?
- Un uomo; un uomo come tanti altri, destinato ad un fugace passaggio in questo mondo, stanco di complicazioni, ingiustizie, fandonie, furberie, violenze; un uomo in cerca di un po’ di se stesso!
- Mi sembra una filosofia piuttosto triste la tua.
- Lo è; forse anche per questo sono qui, a godermi un po’ della mia vita.
- Stavo per chiedertelo; cosa fai seduto da solo quassù?
- Mi piace.
- Che cosa ti piace?
- Stare qui.
- E’ difficile parlare con te, sei di poche parole.
Lo so! Però in certe situazioni, in certi posti, le parole sono inutili. Bisogna lasciare parlare quello che ci circonda, ascoltare il silenzio e le cose che ha da dirci, ascoltare le voci che vengono dal profondo di noi stessi e che troppo spesso tacitiamo, ascoltare i suoni della natura, ascoltare le voci che sono nel vento; e poi lo sai, come ha detto Goethe: "I monti sono maestri muti e formano allievi taciturni"
- Mmm, addirittura le citazioni! Sembri saggio.
- No, non lo sono.
- Perché no?
- Perché sto quassù troppo poco e non mi riesce di ascoltare fino in fondo tutte le cose che ti ho detto. Quando ritorno alla vita di tutti i giorni tutto questo sparisce soffocato dalla frenesia e dai mille impegni che ognuno di noi si è costruito convinto che sia la cosa giusta da fare; d’altra parte la fanno tutti! L’unica cosa che ti resta è una grande nostalgia e la voglia di ritornare quassù!
- Vorresti stare quassù?
- Si.
- Ed allora fallo.
- Non posso.
- Perché?
- Perché non sono saggio.
- Ma tu credi che stare quassù sia facile? Credi che io renda la vita facile ha chi decide di vivere nei miei domini? Mi credi materna e comprensiva? Mi credi malleabile? Mi credi domabile?
- No.
- E allora perché lo faresti?
- Che cosa?
- Stare quassù.
- Te l’ho già detto: perché mi piace!
- Sei un uomo strano.
- Forse.
- Comunque stare quassù è dura!
- Si ma è altrettanto duro vivere in una città, una vita che non riconosci più come tua in un posto che non è più il tuo. Quando te ne accorgi spesso è troppo tardi per cambiare, o forse semplicemente non hai più il coraggio di farlo e allora fai l’unica cosa che può aiutarti: vieni quassù ogni volta che puoi e ti viene il pensiero, che piano piano diventa certezza, che, forse, se vivessi quassù le cose migliorerebbero sensibilmente.
- Come puoi paragonare lo stare qui con lo stare in una città, in mezzo alle comodità ed alla gente?
- Comodità? Gente? Certo: i negozi sono sotto casa, hai tutti i servizi, esci e ti mescoli in mezzo alla folla; però mi sono sentito più solo in mezzo a centinaia di persone, ognuna chiusa nel proprio guscio di indifferenza verso gli altri, che adesso quassù; queste sono le comodità a cui alludi? Sei certa che il gioco valga la candela?
- Però quassù quando nevica ed infuria la tormenta ti devi spalare la strada, quando fa freddo devi stare attento che non ti si spenga la stufa, quando d’inverno manca la corrente elettrica devi stare al lume di candela, se hai bisogno di qualche genere particolare non lo trovi nei negozi, e potrei proseguire a dirtene di disagi.
- Quando è nevicato sono rimasto impantanato in strade di città e non di montagna, perché in città non erano pronti con i mezzi spazzaneve mentre qui sono sempre preparati e poi se c’è la necessità fanno quello che devono senza badare troppo ai formalismi e alla burocrazia. Quando, prima o dopo le date stabilite dalla legge per l’accensione degli impianti di riscaldamento, ci sono state delle giornate di maltempo, ho patito il freddo nella casa di città mentre qui ho potuto accendere la stufa quando ho voluto. Quando è mancata la corrente elettrica in città non sono riuscito a comperare le candele, non ero preparato e non me l’aspettavo, qui le ho sempre in casa e comunque le trovo sempre nel negozietto del paese, perché so che capiterà di restare al buio. Forse hai ragione sui negozi.
- Ma tu di dove sei?
- Di un posto di montagna.
- Ecco! Ora capisco.
- Che cosa?
- Il tuo modo di pensare e le cose che mi dici. Un uomo nato e cresciuto in una città molto difficilmente mi avrebbe detto quello che mi hai detto tu. Loro salgono quassù d’estate, in combriccole chiassose a fare le loro merende, lasciano cartacce e rifiuti dappertutto, strappano i fiori per fare dei grossi mazzi che appassiscono prima che arrivino a casa, calpestano i pascoli, incidono scritte idiote sul tronco degli alberi, accendono fuochi senza precauzione e distruggono ettari di bosco. Quante volte ho sentito gli alberi urlare per il dolore mentre venivano arsi vivi per l’incoscienza di un uomo, o gli animali terrorizzati cercare scampo sui miei fianchi rocciosi dove il fuoco non arriva! Oppure salgono quelli che si chiamano alpinisti; alcuni, devo riconoscerlo, sono persone a modo, che mi sfidano ma che mi rispettano e mi vogliono bene sul serio, che sanno comportarsi bene con me; altri però improvvisano. Pensa che ho visto delle persone su un ripido nevaio con le scarpe da ginnastica di tela! Cose da farmi accapponare le rocce! Poi, purtroppo succedono le disgrazie! E allora è colpa mia che sono crudele ed infida; i giornali scrivono che bisogna fare attenzione a fidarsi di me, quasi mi facesse piacere vedere uomini che precipitano nei miei anfratti o scivolano sui miei ghiacciai e si sfracellano in fondo a qualche burrone! Io cerco di avvertirli, con dei segni, ma loro non sanno riconoscerli! Non sanno vedere la placca di roccia o di ghiaccio o neve infida, non sanno vedere il temporale che si addensa sui miei fianchi e che presto gli scaricherà addosso tempesta e fulmini mortali; insomma, spesso non so proprio come fare!
- Eh, certo che anche tu hai le tue ragioni.
- Mah, è pur vero che sono un po’ difficile da capire e da trattare, ma di certo non voglio fare del male a nessuno. Sono contenta anch’io quando vedo gli alpinisti arrivare in vetta e gioire e ritornare sani alle loro case per raccontare le loro avventure agli amici; oppure più semplicemente quando qualche allegra comitiva sale qui sui pianori a godersi un po’ di aria buona e di serenità, o attraversa i miei passi per visitare le mie vallate, o si ferma nei rifugi a pernottare: le loro luci mi fanno compagnia quando scende il buio. Mi ricordo, ormai sono molti anni, quando i primi alpinisti hanno cominciato a fare le loro salite accompagnati da persone dei paesi di quassù, che un po’ mi conoscevano perché mi percorrevano per portare il loro poco bestiame sui pascoli o per andare a caccia o anche per andare a scambiare o contrabbandare merci nelle varie vallate.
- Ho visto delle fotografie e ho letto dei resoconti di vecchie scalate; certo che allora i mezzi e le attrezzature erano proprio poche rispetto ad oggi! Per questo penso che quelli fossero veri alpinisti! Un conto è salire con pesanti scarponi di cuoio con sotto i chiodi, con vestiti di lana che si inzuppano di sudore o di pioggia e magari poi gelano, con corde di canapa che quando si bagnano diventano dure come legno, e un conto è salire con le moderne attrezzature, leggere, comode, calde ed asciutte, maneggevoli, con radio e telefoni portatili per chiedere aiuto in caso di necessità. Però, d’altra parte è meglio così, oggi si è più sicuri anche grazie a tutte queste cose di cui si può disporre.
- Si, sono d’accordo con te, anche se mi dava più soddisfazione vedere con quali sforzi e con quale indistruttibile volontà mi scalavano gli alpinisti dei secoli scorsi, o come si ingegnavano per inventarsi nuovi sistemi o nuovi attrezzi autocostruiti per trarsi d’impaccio quando li mettevo alle corde con qualche passaggio molto difficile.
- Come quando Whymper, nel 1862, costruì il primo rudimentale cliff-hanger, o il cappio con anello in ferro e cordino per recuperare la corda nelle calate?
- Si, esattamente; ma gli esempi potrebbero continuare numerosi.
- Lo so. Però, se dici così, mi autorizzi a pensare che non sei buona come mi hai detto poco fa. Ora che ci penso di vittime ne hai fatte parecchie!
- Dai, non esagerare, è stato il prezzo che l’uomo ha dovuto pagare per la sua sete di conquista; anche chi ha attraversato deserti o esplorato foreste, o risalito fiumi sconosciuti o navigato su mari ignoti, talvolta ha incontrato la nera signora.
- La nera signora. Mi piace questo eufemismo usato da te.
- Se avessi detto morte mi avresti accusata di poca sensibilità.
- Nera signora, morte, donna con la falce, o qualsiasi altro appellativo, non cambia la sostanza.
- Eppure anch’io sono rimasta turbata ed ho pianto per le grandi tragedie: quella della spedizione di Whymper sul Cervino, la drammatica fine di Toni Kurz sulla nord dell’Eiger, o la tragedia che ha travolto Corti e Longhi sempre sull’Eiger, la terribile agonia sul Monte bianco di Vincendon ed Henry, le indicibili sofferenze di Simpson sul Siula Grande nelle Ande Peruviane, la morte sull’Everest di Mallory e Irvine, di cui ancora voi uomini cercate la ragione ….. mah, è meglio non rivangare ricordi tristi. Se solo, a volte, voi uomini vi rendeste conto che non sempre il momento è quello giusto per fare certe cose. Se solo metteste da parte l’orgoglio e la sete di primeggiare sempre e comunque e vi rendeste conto che, si io sono buona, ma sono severa e con me non c’è spazio per leggerezze….. probabilmente tante disgrazie si potrebbero evitare!
- Tu sai come è andata a Mallory e Irvine!
- Certo; c’ero! Ma non ho voglia di parlarne, sarebbe un racconto troppo triste! Sull’Everest, più che in altri posti, non ci si possono permettere errori neanche minimi. Forse erano due alpinisti troppo diversi, con esperienze troppo diverse, non sufficientemente in sincronia per una sfida così grande; te l’ho detto che non sempre il momento è quello giusto.
- Dici bene tu, ma sai che l’uomo non è saggio. Mi hanno insegnato che ci vuole più coraggio a ritornare indietro quando ormai manca poco alla vetta che a raggiungerla a tutti i costi, ma ho fatto fatica a capirlo, solo dopo averci meditato per un po’ di tempo me ne sono convinto; però conosco tanta gente che, se mi sentisse, mi darebbe del codardo o quantomeno del buono a nulla.
- Ma tu sei un alpinista?
- Se per alpinista intendi uno che ti sfida, sempre e a tutti i costi, sulle pareti o sui ghiacciai, che va sempre in giro con chili di ferraglia appesi all’imbragatura e mazzi di corde arrotolati nello zaino, che dorme con la piccozza vicino al letto, che considera andare in montagna solo superare il settimo grado, allora no, non lo sono! Se invece per alpinista intendi uno che ti apprezza anche nelle tue forme meno ardite, che ama la tua natura, che ti rispetta e ha il giusto timore di te, che qualche volta desidera anche cimentarsi in qualche sfida con te, che possiede una piccozza ed un paio di ramponi, che si diverte ad arrampicare di tanto in tanto, che viene anche semplicemente a sedersi su una roccia come questa per stare un po’ da solo con te e magari fare due chiacchiere come stiamo facendo adesso, allora si, lo sono! Scegli tu.
- Cominci a piacermi, uomo.
- Grazie, tu mi piaci da molto tempo; ma queste cose preferirei che me le dicesse e che io le dicessi ad una bella donna.
- A proposito di donne, sai che mi è giunta voce che l’alpinismo e le donne non possono coesistere?
- Si, l’ho letto anch’io, ma sai cosa credo?
- Cosa?
- Che chi l’ha detto non abbia capito niente ne di donne, ne di alpinismo. Certo che si ti rintani in un rifugio o in un bivacco e trascorri una notte di sesso sfrenato e il giorno dopo pretendi di salire, vispo come un grillo, la parete nord delle Grandes Jorasses, o sei un mostro o sei un folle. Ma dato che i mostri non esistono, se non nella fantasia, sei di sicuro un folle. Ci sono stati grandi alpinisti con donne al loro fianco, prendi Cassin, sposato con figli, prendi Herman Buhl …..
- Ma sai che mi piaci sempre di più!
- Smettila di scherzare, ti ho già detto come la penso!
- Chiacchierando il tempo passa, il sole è già al punto più alto del suo percorso.
- A proposito, ti spiace se, mentre chiacchieriamo, sbocconcello qualcosa che mi sono portato nello zaino?
- Figurati, basta che poi non lasci in giro porcherie.
- Ma insomma, è da un bel po’ che parliamo e ancora dubiti del mio comportamento?
- C’è da fidarsi?
- Vedi tu! Comunque io penso che se ho fatto lo sforzo di portare i contenitori pieni in salita non capisco perché non possa portarli vuoti in discesa e debba sparpagliarli qua.
- Quando ti ho chiesto cosa facevi quassù, però, mi hai dato una risposta troppo vaga. Dimmi di più.
- Che cosa vuoi che ti dica? Ho cominciato a percorrerti da ragazzo perché eri l’unico posti in cui potevo placare la mia sete di avventura. Sai, ho iniziato come cacciatore di rocce.
- Cercavi minerali?
- Si. Poi però la semplice ricerca dell’avventura è diventata qualcosa di più profondo, qualcosa che mi ha legato strettamente al tuo mondo, qualcosa che mi ha fatto sognare le grandi scalate, che però non sono mai riuscito a fare. - Perché?
- Mah … forse mi è mancata la compagnia giusta, forse mi sono fatto distrarre troppo da altri impegni, o forse ne ho assunti di troppo gravosi perché mi lasciassero abbastanza tempo da dedicarti … Non lo so! Anche se credo che sia il primo dei motivi che ti ho detto.
- E poi?
- Poi cosa?
- Come è proseguita fino ad oggi?
- Poi, per un certo periodo ti ho tralasciata molto perché, come ti dicevo non essendo saggio, ho commesso l’irrimediabile errore di costruirmi un’esistenza che credevo adatta a me ma che mi ha portato ad uno stato di grande sofferenza interiore che mi ha fatto capire che stavo sbagliando tutto. Il modello che avevo preso ad esempio era completamente sbagliato! Non potevo stare senza di te, mi mancava la tua natura, i tuoi grandi spazi, i tuoi profondi silenzi; tutte cose che mi facevano, e mi fanno, stare bene. Da quel momento ho ripreso a frequentarti! Certo, quando posso; ma ogni volta è per me una specie di rinascita interiore, qualcosa che non so spiegare ma che mi porto dentro per un po’; poi devo ritornare quassù.
- Interessante! Forse stai scoprendo una dimensione spirituale diversa da quella della maggioranza; diversa dalla dimensione meramente poetica o romantica che alcuni trovano in me, diversa anche da quello spirito di ribellione contro le cose del mondo di oggi che porta tanti a venire quassù, diversa anche dalla ricerca del’eroismo fisico che ha animato ed anima tanti alpinisti!
- Non lo so! Sto ancora cercando di capirlo. Certamente la componente poetica e quella di ribellione, ci sono dentro di me, sono una spinta; forse, come ha detto Camanni, sono anch’io uno di quegli uomo-fanciullo mai diventato completamente adulto e sempre alla ricerca di attimi ed emozioni che non trova nella vita quotidiana. Come ti ho detto, sto cercando di andare un po’ più a fondo in me stesso per capire di più su questo mio atteggiamento nei tuoi confronti. Vedremo. Ci vuole tempo perché certe cose maturino ed emergano dal profondo della nostra coscienza.
- Forse cerchi l’ascesi interiore.
- Forse! Tu sei un mondo affascinante, attraente, terribile. Non è certo un caso che da sempre le culture abbiano collocato sulle tue vette Dei e Demoni. Hai sempre rappresentato l’irraggiungibile, la difficoltà; come difficoltoso è l’incontro con il divino o il soprannaturale.
- A proposito di difficoltà, siamo noi due che stiamo facendo dei discorsi difficili!
- Si! Ma ogni tanto è piacevole confrontarsi con qualcuno anche su queste cose, ma sono pochi gli uomini con cui è possibile farlo senza essere presi quantomeno per persone strane.
- Perché non capiscono!
- Lo so! Per fortuna qualcuno che ti capisce c’è, ma sono pochi!
- Ebbene continua uomo! Continua a venire quassù tutte le volte che vuoi. Continua a salire e cercare la montagna; ma non solo la montagna di rocce e neve, bensì quella che è dentro di te. Solo così potrai arrivare a quello stato di risveglio, ma soprattutto di illuminazione interiore, che solo qui puoi scoprire. Io ti chiedo continuità, fatica, silenzio, solitudine, rischio, fedeltà senza limiti e in cambio ti posso dare la serenità che viene dalla scoperta della montagna interiore e della rivelazione più profonda di te stesso, fino a superare ogni vetta materiale e raggiungere un ordine superiore.
- Queste parole mi fanno piacere; mi hai capito! Hai capito quello che sento dentro e che non so ancora spiegare, ma che forse hai spiegato tu, qui, ora! Credo che continuerò come dici tu, continuerò a salire perché, come ha detto Gregorio di Nissa “chi sale non si fermerà mai, andando di inizio in inizio, per inizi che mai hanno fine” ed un monaco, di cui non so il nome ha scritto che “le montagne non sono l’Assoluto, ma lo suggeriscono”.
- Bene! Basta con i discorsi troppo impegnati. Il sole sta calando, dovrai rientrare.
- Si, devo. A presto. Ho parlato volentieri con te.
- Sai dove trovarmi ogni volta che vorrai, e anche se non parleremo sarà lo stesso, perché, come tu stesso mi hai detto, a volte parlare non serve; a volte il silenzio ci dice più di molte parole perché, soprattutto, ci consente di ascoltare noi stessi.
L’uomo si alza, si sente bene, si sente un po’ rinato, volge ancora lo sguardo tutto intorno e cerca ancora la voce della montagna.
Una curiosa, leggera nebbiolina sale lungo i canaloni, come spinta da un alito di vento, che però vento non è! La montagna sta ritornando a se stessa; forse, chissà, tornerà a parlargli; o forse si è trattato della sua immaginazione.
No.
Non era solo immaginazione; ma non lo racconterà; non è sicuro che verrebbe capito!
Adesso scende; lungo ampi pascoli, prati disseminati di massi dove solo qualche pino cembro resiste alle intemperie, poi nel bosco; scende adagio, osserva, ascolta, ogni tanto si ferma, immobile, si guarda intorno e poi riprende il cammino.
Poco alla volta, il bosco, prima di larici e abeti, diventa un bosco di faggi, poi di castagni, poi ancora un bosco misto, poi la pendenza del sentiero diminuisce, fino al piano.
L’uomo si sente diverso; ora sa che quello che sente dentro è vero, reale, ora sa che la montagna esiste dentro di se, nel più fondo della sua interiorità.
Lui deve solo ascoltarla!
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